Il caso dunque è chiuso. Non è stata omofobia, né razzismo. Squalifica mite, multe ad entrambi. La Federcalcio archivia: Sarri non è omofobo perché Mancini non è finocchio.
Ci sarebbe da ridere, se non facesse pena.
Per noi invece l’episodio di martedì 19 gennaio (l’anno, ricordiamolo per i posteri, è il 2016 dopo Cristo) è non solo aperto, ma memorabile. Per la prima volta il calcio italiano assiste ad un allenatore famoso che reagisce ad insulti omofobi e lo denuncia pubblicamente con parole nette. Rivoluzionario. Che il mondo del calcio stia cambiando?
Figuriamoci. Sono proprio le reazioni, istituzionali e non, tutte piccole piccole, deprimenti e spesso ridicole, che indicano il livello del calcio italiano: siamo ancora ai tempi del colera. Il colera dell’ignoranza.
Partiamo dalla giustificazione di Sarri: “Mi scuso, ma non sono omofobo; è la prima cosa che mi è venuta in mente” per insultare l’avversario. Fantastico: a sua insaputa ha fornito la perfetta definizione di pregiudizio. “Io gli avrei risposto: portami tua moglie“, ha replicato qualcun altro. E così via.
Questo passa la Federcalcio di Tavecchio, famigerato per affermazioni altrettanto indecenti e sempre lì sulla sua poltrona, e di Felice Belloli, (ex) presidente della Lega Nazionale Dilettanti allontanato dall’incarico per la frase “Basta soldi a queste 4 lesbiche”, riferendosi al calcio femminile e poi squalificato per 4 mesi (evidentemente perché le calciatrici sono effettivamente gay…).
Alcuni anni fa eravamo allo stesso punto: “In Italia non esistono calciatori omosessuali” è stata l’affermazione perentoria e ripetuta nel tempo da allenatori (Lippi, Mazzone, Mourinho), giocatori (Cassano in primis), dirigenti (Moggi), tutti divertiti nell’escludere l’esistenza di gay nel calcio e contemporaneamente impegnati a dissuaderli dal fare coming out. La frase per i meno distratti riecheggia il motto fascista “In Italia sono tutti maschi“, salvo il carcere o l’esilio per quelli poco virili. Oppure l’agghiacciante propaganda simil nazista di presidenti di nazioni teocratiche “Nel nostro paese non esistono gay”, salvo procedere al loro sterminio.
La storia non insegna, evidentemente. D’altronde, come dar loro torto? Conoscete il nome di un calciatore gay? In Italia? Nel mondo? No. (Uno in realtà c’è: Anton Hysen). Statisticamente impossibile, ma hanno ragione loro.
Eppure uno c’è stato: Justin Fashanu fece pubblicamente coming out nel 1990, dopo anni di insulti e di ululati. La reazione dei dirigenti, dei tifosi avversari e non, dei media, della famiglia, dei suoi amici, della comunità nera inglese fu talmente violenta (ancora oggi il fratello John continua a dichiarare che Justin non era gay), da indurre prima l’isolamento e poi il suo suicidio.
L’eredità di questa storia sconvolgente ha dato però buoni frutti, come il progetto “The Justin Campaign”. Non solo: la Football Association inglese ha da tempo capito che la lotta al razzismo e all’omofobia è l’unica salvezza del calcio dallo scivolamento verso il baratro della violenza. Ha quindi lanciato diverse campagne di sensibilizzazione su questi temi, belle, decise, diffuse. Due linee guida: da un lato l’educazione al rispetto, dall’altro la repressione della violenza con multe salate, squalifiche, denunce penali. Lo sanno bene due nostri connazionali, il giovane Federico Macheda (primo calciatore punito per omofobia) e mister Capello, dimessosi per non aver accettato il provvedimento disciplinare a capitan Terry, accusato di razzismo. Bella figura. Lo stesso Mancini ha forse beneficiato del clima inglese per modificare le sue idee sull’omosessualità e oggi è in grado di cogliere il razzismo in frasi e atteggiamenti che per molti sono solo goliardici.
Gran parte dei paesi europei è sulla stessa linea; l’Uefa spende parole per il rispetto, riconoscendo l’emergenza strutturale del calcio: razzismo, xenofobia, fascismo, antisemitismo, omofobia, sessismo.
In Italia dobbiamo accontentarci di piccoli passi: mister Prandelli, i calciatori Damiano Tommasi, Claudio Marchisio, pupone Totti e perfino Marco Materazzi hanno dati segnali di vita, messaggi nella bottiglia in un mare in perenne tempesta.
D’altro canto il mondo della politica, principale causa di questa situazione, non è in grado di promuovere l’avanzamento: i due disegni di legge che riguardano omofobia e diritti umani appaiono disastrosi: la legge Scalfarotto è ferma da due anni in Parlamento, e per fortuna, perché invece di contrastarla, legalizza l’omofobia istituzionale; la legge Cirinnà, che pur di riconoscere alcuni parzialissimi diritti, legalizza la discriminazione per legge, sta per essere discussa al Senato.
Nessuna sorpresa, siamo al tempo del colera.
Il lavoro che ci aspetta è enorme. C’è da alfabetizzarci sulla differenza tra sesso biologico (maschio, femmina, intersex), orientamento (etero, gay, bi) e genere (uomo, donna, trans) e sul contrasto degli stereotipi che grondano dalle parole dei manipolatori di professione.
La resistenza può forse ripartire da qui, dalle parole di Gianni Mura rivolte a Pep Guardiola, il miglior allenatore del mondo: “Non occorre che le spieghi perché lei è diverso, in questo calcio. Da giocatore, qualcuno sentenziò che lei era gay, perché le piaceva andare a teatro e, addirittura, leggere libri”.
Oppure da quel bacio stampato il 19 ottobre del 2013 dall’attaccante diciottenne dell’Ischia, dopo aver segnato un gol nella partita Salernitana–Ischia, categoria Berretti. Aggrappato alla recinzione. Sulle labbra del proprio fidanzato.
Fabrizio Picciolo